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Funzionario degli Emirati Arabi Uniti a Reuters: gli Emirati Arabi Uniti affermano che la governance e l'integrità territoriale dello Yemen devono essere determinate dagli yemeniti

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Funzionario degli Emirati Arabi Uniti a Reuters: la posizione degli Emirati Arabi Uniti sulla crisi dello Yemen è in linea con quella dell'Arabia Saudita nel sostenere un processo politico basato su un'iniziativa sostenuta dagli Stati del Golfo

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Residenza presidenziale francese dell'Eliseo: saranno intensificati i lavori per fornire all'Ucraina solide garanzie di sicurezza e pianificare misure per la ricostruzione del Paese

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Residenza presidenziale francese all'Eliseo: l'incontro dei leader nel formato E3 e il presidente Zelensky hanno consentito la prosecuzione del lavoro congiunto sul piano statunitense

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Il dollaro USA estende i guadagni rispetto allo yen dopo il terremoto in Giappone, ultimo rialzo dello 0,2% a 155,64 yen

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I futures sul gas naturale statunitense scendono del 6% a causa di previsioni meno fredde e di una produzione quasi record

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Banca centrale russa: fissa il tasso di cambio ufficiale del rublo per il 9 dicembre a 77,2733 rubli per dollaro USA (tasso precedente: 76,0937)

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Il vice primo ministro russo Novak: la Russia limiterà le esportazioni di oro a partire dal 2026.

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Il dollaro USA tocca il massimo della sessione rispetto allo yen in seguito alle notizie sul terremoto, ultimo rialzo dello 0,5% a 155,81%

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NHK: Uno tsunami alto 40 centimetri ha raggiunto il porto di Mutsuki ad Aomori, in Giappone.

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Le scorte di cotone ICE ammontano a 13971 - 8 dicembre 2025

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Il primo ministro giapponese Takaichi: si cerca di raccogliere informazioni dopo il terremoto

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Il ministro del Commercio del Regno Unito visiterà gli Stati Uniti questa settimana per colloqui sui dazi

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Il capo del Consiglio presidenziale anti-Houthi dello Yemen afferma che le azioni del Consiglio di transizione meridionale nello Yemen del Sud minano la legittimità del governo riconosciuto a livello internazionale

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Carvana è cresciuta del 9,1% e Crh del 6,8%, poiché entrambe le società sono state aggiunte all'indice S&P 500.

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Le autorità di regolamentazione giapponesi affermano che non sono stati riscontrati problemi nella centrale nucleare di Onagawa.

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Kyodo News: Alcuni servizi del Tohoku Shinkansen sono stati sospesi a seguito del terremoto in Giappone.

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L'Agenzia meteorologica giapponese ha emesso allerte tsunami per la costa centrale del Pacifico di Hokkaido, la costa pacifica della prefettura di Aomori e la prefettura di Iwate.

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L'euro raggiunge il massimo della sessione rispetto allo yen dopo il forte terremoto in Giappone, ultimo rialzo dello 0,3% a 181,36 yen

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L'S&P 500 ha aperto in rialzo di 4,80 punti, ovvero dello 0,07%, a 6875,20; il Dow Jones Industrial Average ha aperto in rialzo di 16,52 punti, ovvero dello 0,03%, a 47971,51; e il Nasdaq Composite ha aperto in rialzo di 60,09 punti, ovvero dello 0,25%, a 23638,22.

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          Lo stimolo economico della Cina compenserà parzialmente i dazi statunitensi nel 2025

          Goldman Sachs

          Economico

          Resoconto:

          L'unica nota positiva dell'economia cinese quest'anno sono state le forti esportazioni.

          Secondo le previsioni di Goldman Sachs Research, l'economia cinese   crescerà a un ritmo più lento nel 2025, poiché gli sforzi di stimolo del governo compenseranno in parte l'impatto dei potenziali dazi degli Stati Uniti.
          Si prevede che la crescita del PIL reale   rallenterà al 4,5% l'anno prossimo dal 4,9% del 2024. La previsione di Goldman Sachs Research presuppone un aumento di 20 punti percentuali del tasso tariffario effettivo imposto dalla nuova amministrazione Trump sui beni cinesi, che peserebbe sul PIL reale della Cina di 0,7 punti percentuali nel 2025. La previsione presuppone anche che i decisori politici cinesi introdurranno nuovi stimoli per attenuare l'impatto dei dazi.
          "La scelta che si presenta ai decisori politici cinesi è semplice: o fornire una grande dose di compensazione politica o accettare una crescita del PIL reale notevolmente inferiore", scrive il capo economista cinese Hui Shan nel rapporto del team. "Ci aspettiamo che scelgano la prima opzione".
          Lo stimolo economico della Cina compenserà parzialmente i dazi statunitensi nel 2025_1
          Per altri aspetti, l'attenzione della leadership cinese non è cambiata: i funzionari sono determinati, nel medio termine, a indirizzare  l'economia  verso un modello di crescita guidato dalla tecnologia e autosufficiente. Il costo di ciò, ovvero salire la scala per produrre una crescita di qualità superiore, è un'espansione economica più lenta, secondo Goldman Sachs Research. I nostri economisti prevedono una crescita del PIL reale in media del 3,5% dal 2025 al 2035, rispetto al 9,0% nel periodo 2000-2019.
          "L'economia cinese ha dovuto affrontare notevoli venti contrari alla crescita nel 2024 e i decisori politici hanno finalmente iniziato un allentamento più energico a fine settembre", scrive Shan. "Il modo in cui i decisori politici cinesi si appoggeranno al vento per stabilizzare i consumi interni e il mercato immobiliare e per gestire le rinnovate tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina sarà il tema principale del 2025".
          In che modo la Cina sosterrà la propria economia?
          Storicamente, il governo cinese ha cercato di sostenere la propria economia attraverso infrastrutture e costruzioni immobiliari. Questa volta, Goldman Sachs Research ritiene che i decisori politici cinesi probabilmente reagiranno tagliando considerevolmente i tassi di interesse e aumentando il deficit fiscale.
          Le forti esportazioni sono state l'unico punto luminoso nell'economia cinese quest'anno, contribuendo al 70% della crescita prevista del PIL reale del 4,9%, secondo Goldman Sachs Research. Anche se gli esportatori cinesi potrebbero continuare a guadagnare quote di mercato nei paesi emergenti, in mezzo a tariffe statunitensi significativamente più elevate, è probabile che la crescita delle esportazioni totali deceleri bruscamente. Il contributo alla crescita del PIL reale dalle esportazioni potrebbe calare materialmente l'anno prossimo. 
          Le esportazioni cinesi verso paesi non statunitensi (che si stima rappresentino oltre l'85% delle esportazioni totali della Cina) probabilmente aumenteranno modestamente nel 2025, in parte grazie alla forte competitività dei prezzi e al potenziale deprezzamento della valuta. Goldman Sachs Research prevede che il volume totale delle esportazioni di beni della Cina sarà piatto l'anno prossimo rispetto a quest'anno (rispetto a un aumento del 13% nel 2024).
          Le prospettive di inflazione in Cina
          Le proiezioni di inflazione di Goldman Sachs Research sono notevolmente al di sotto delle stime consensuali degli economisti. Shan prevede che l'inflazione CPI e PPI sarà rispettivamente dello 0,8% e dello 0% il prossimo anno, rispetto al consenso di Bloomberg dell'1,2% e dello 0,4%. "Ci sono fattori strutturali che pesano sull'inflazione, tra cui la crisi immobiliare pluriennale e la persistente sovracapacità industriale", scrive Shan. "Ripristinare la fiducia dei consumatori e rafforzare i mercati del lavoro e la crescita salariale richiederà probabilmente del tempo".
          A settembre, i decisori politici hanno promesso una serie di misure per sostenere tutto, dal settore immobiliare cinese al mercato azionario, in un contesto di rallentamento dei consumi. I consumi delle famiglie hanno contribuito solo per il 29% al PIL nominale nel terzo trimestre del 2024, in calo rispetto al 47% del secondo trimestre e al 59% prima dell'inizio della pandemia. Goldman Sachs Research prevede che la crescita dei consumi delle famiglie rimarrà invariata al 5% nel 2025.
          "La debolezza della domanda interna ha finalmente colpito la 'politica di riferimento' e l'attuale allentamento enfatizza la risoluzione del debito degli enti locali, i consumi delle famiglie e la performance del mercato azionario", scrive Shan.
          Il mercato immobiliare cinese è prossimo al punto più basso?
          Lo stimolo economico della Cina compenserà parzialmente i dazi statunitensi nel 2025_2
          Tuttavia, è probabile che la crisi immobiliare in corso in Cina continui a rappresentare un freno significativo. Gli inizi di nuove costruzioni e le entrate governative dalle vendite di terreni sono crollati del 60-70% rispetto al picco del 2020-21. Le vendite e i completamenti di nuove case si sono quasi dimezzati negli ultimi dati.
          Date le numerose sfide strutturali, i nostri economisti non vedono "alcuna soluzione rapida" per il settore immobiliare nazionale e si aspettano che la recessione rappresenti un freno pluriennale alla crescita dell'economia cinese. Goldman Sachs Research prevede che il settore immobiliare peserà probabilmente sulla crescita del PIL cinese di 2 punti percentuali nel 2025 (rispetto a -2,1 punti percentuali nel 2024). Il team si aspetta che il freno alla crescita si riduca a partire dal 2026, ma che persista fino al 2030.
          "Con le misure di allentamento incrementale del mercato immobiliare in arrivo, è possibile vedere una stabilizzazione dei prezzi delle case in alcune grandi città l'anno prossimo, ma probabilmente non a livello nazionale", scrive Shan. "Per molte attività immobiliari legate all'edilizia, il loro trend al ribasso pluriennale sembra inevitabile".
          Mentre la previsione del 4,5% dei nostri economisti per il PIL nel 2025 è in linea con le aspettative del consenso, essi notano che la gamma di possibili risultati è ampia per il prossimo anno. Tariffe più elevate del previsto da parte dell'amministrazione statunitense rappresentano un rischio al ribasso fondamentale; il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha minacciato di aumentarle fino a 60 punti percentuali e la revoca dello status di Relazioni commerciali normali permanenti della Cina vedrebbe l'aliquota tariffaria effettiva salire di 40 punti percentuali. Per quanto riguarda il rischio al rialzo, le esportazioni di beni cinesi potrebbero rivelarsi più resilienti del previsto, il che potrebbe determinare una crescita superiore alle previsioni.
          Questo articolo viene fornito solo a scopo didattico. Le informazioni contenute in questo articolo non costituiscono una raccomandazione da parte di alcuna entità Goldman Sachs al destinatario, e Goldman Sachs non fornisce alcuna consulenza finanziaria, economica, legale, di investimento, contabile o fiscale tramite questo articolo o al suo destinatario. Né Goldman Sachs né alcuna delle sue affiliate rilascia alcuna dichiarazione o garanzia, espressa o implicita, in merito all'accuratezza o completezza delle dichiarazioni o di qualsiasi informazione contenuta in questo articolo e qualsiasi responsabilità conseguente (anche in relazione a perdite o danni diretti, indiretti o consequenziali) è espressamente esclusa.
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          Permangono ampie divisioni partigiane nelle opinioni degli americani sulla guerra in Ucraina

          BANCO
          A quasi tre anni dall'inizio della guerra in Ucraina, il presidente eletto Donald Trump ha promesso una rapida fine del conflitto quando entrerà in carica. Le opinioni degli americani sul sostegno degli Stati Uniti all'Ucraina sono cambiate poco negli ultimi mesi, ma continuano a esserci ampie differenze di partito, secondo un sondaggio del Pew Research Center condotto dal 12 al 17 novembre.
          I repubblicani sono molto più propensi dei democratici ad affermare che gli Stati Uniti stanno fornendo troppo sostegno all'Ucraina (42% contro 13%).
          Inoltre, i repubblicani sono molto meno propensi dei democratici ad affermare che gli Stati Uniti hanno la responsabilità di aiutare l'Ucraina a difendersi dall'invasione russa (36% contro 65%).
          Inoltre, i repubblicani e gli indipendenti di orientamento repubblicano sono stati a lungo meno propensi dei democratici e dei democratici a considerare l'invasione della Russia come una minaccia importante per gli interessi degli Stati Uniti. Ma questo divario partigiano è cresciuto. Solo il 19% dei repubblicani ora afferma che l'invasione è una minaccia importante, rispetto al 42% dei democratici.

          Nota: il sondaggio è stato condotto prima che l'amministrazione Biden consentisse all'Ucraina di utilizzare armi a lungo raggio statunitensi per colpire obiettivi all'interno della Russia e fornisse mine antiuomo all'Ucraina.

          Il sostegno degli Stati Uniti all'Ucraina

          Oggi, il 27% degli americani afferma che gli USA stanno fornendo troppi aiuti all'Ucraina. Un altro 25% definisce il sostegno degli USA come "più o meno giusto" e il 18% afferma che gli USA non stanno fornendo abbastanza sostegno. Queste percentuali sono simili alle opinioni di luglio, sebbene ora gli americani siano un po' più propensi a dire di non esserne sicuri rispetto a quattro mesi fa (29% contro il 25% di allora).
          Tra i repubblicani, il 42% afferma che gli USA stanno fornendo troppo supporto. Un altro 19% afferma che la quantità di supporto è più o meno giusta, mentre uno su dieci afferma che gli USA non stanno fornendo abbastanza supporto.
          In confronto, tra i democratici, solo il 13% afferma che il paese sta fornendo troppo supporto all'Ucraina. Circa tre su dieci (31%) affermano che il livello di supporto è giusto. Una quota simile (28%) afferma che gli Stati Uniti non stanno fornendo abbastanza supporto.Permangono ampie divisioni partigiane nelle opinioni degli americani sulla guerra in Ucraina_1

          Responsabilità degli Stati Uniti nell'aiutare l'Ucraina

          Gli americani sono anche divisi sul fatto che gli USA abbiano la responsabilità di aiutare l'Ucraina a difendersi dall'invasione russa. Metà degli americani afferma che gli USA hanno questa responsabilità, mentre il 47% afferma di no. Queste opinioni sono rimaste sostanzialmente invariate negli ultimi mesi.
          Anche le opinioni dei partigiani sono sostanzialmente le stesse di luglio:
          Il 36% dei repubblicani afferma che gli USA hanno la responsabilità di aiutare l'Ucraina a difendersi. La stessa percentuale lo ha affermato a luglio.
          Il 65% dei democratici afferma che gli USA hanno questa responsabilità. Ciò è quasi identico alle opinioni di luglio (quando il 63% lo ha affermato).Permangono ampie divisioni partigiane nelle opinioni degli americani sulla guerra in Ucraina_2

          L'invasione russa come minaccia agli interessi degli Stati Uniti

          Tre americani su dieci ora affermano che l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia rappresenta una grave minaccia per gli interessi degli Stati Uniti. Queste opinioni sono state relativamente stabili negli ultimi anni, sebbene gli americani fossero notevolmente più propensi a dirlo nelle prime settimane del conflitto nel 2022.  
          Dal 2023, i repubblicani sono stati molto meno propensi dei democratici a considerare l'invasione russa dell'Ucraina come una minaccia per gli Stati Uniti. Tuttavia, la percentuale di coloro che affermano questo è ora al minimo: oggi, lo afferma il 19%, in calo rispetto al 26% di luglio.
          Circa quattro democratici su dieci (42%) considerano l'invasione della Russia una minaccia importante. Questa è una percentuale leggermente inferiore al 45% che lo ha affermato a luglio, ma in linea con le opinioni dei democratici dal 2023.Permangono ampie divisioni partigiane nelle opinioni degli americani sulla guerra in Ucraina_3
          Fonte: PEW
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          I mercati finanziari potrebbero incorporare il valore della natura?

          Brookings Institution

          Economico

          Nel 2024, il Global Footprint Network ha stimato che "gli esseri umani utilizzano tante risorse ecologiche come se vivessero su 1,7 Terre". Questo uso eccessivo di risorse evidenzia come l'economia globale si sia sviluppata a costo di un continuo degrado ambientale. La Dasgupta Review del 2021, un rapporto completo sull'economia della biodiversità, ha stimato che, tra il 1992 e il 2014, il capitale umano pro capite, definito come lavoro, competenze e conoscenze, è aumentato di circa il 13% e il capitale prodotto pro capite, come strade, edifici e fabbriche, è raddoppiato. Nel frattempo, il capitale naturale pro capite, definito come "lo stock di risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili che generano un flusso di benefici per le persone", è diminuito del 40%.
          Mentre affrontiamo le sfide derivanti dal cambiamento climatico e dalla perdita di biodiversità, diventa sempre più necessario integrare considerazioni ambientali nelle decisioni economiche.

          Quali sfide dobbiamo affrontare quando integriamo il valore della natura nelle decisioni economiche?

          Il degrado ambientale deriva da quello che gli economisti chiamano il problema dell'esternalità: l'incapacità degli individui direttamente coinvolti in una transazione di tenere conto dei costi indiretti sostenuti dalla società. Un esempio di ciò sarebbe un proprietario terriero che abbatte una foresta senza considerare il suo ruolo nell'assorbimento dei gas serra. Inoltre, quantificare il valore dell'aria pulita o dei fiumi non inquinati utilizzando parametri economici tradizionali è difficile in assenza di un mercato formale. Di conseguenza, l'umanità ha trattato i servizi forniti dalla natura ("servizi ecosistemici"), come l'ossigeno dagli alberi, l'impollinazione delle colture da parte delle api e la mitigazione delle inondazioni dalle zone umide, in gran parte come se fossero gratuiti, senza considerare l'esaurimento di queste risorse causato dalle loro azioni.
          Affrontare le esternalità implica l'incorporazione dei costi sociali nel prezzo dei beni e dei servizi creati nell'economia. Idealmente, stimeremmo e stabiliremmo un prezzo per il carbonio emesso durante la produzione, la perdita di biodiversità causata dall'inquinamento delle acque, l'esaurimento dell'ossigeno dovuto alla deforestazione e così via. L'idea di fondo è di valutare foreste, laghi e altre risorse naturali non solo per i beni in cui possono essere trasformati, ma anche per il valore che forniscono alla società quando rimangono nella loro forma naturale originale. Ad esempio, le piante assorbono la CO2 nell'atmosfera e rilasciano ossigeno tramite la fotosintesi. Quindi, in linea di principio, è possibile calcolare il prezzo delle emissioni di CO2 stimando il costo della piantumazione di alberi per compensarle. Tuttavia, valutare altre esternalità ambientali è più complesso. Attribuire un valore monetario alla perdita di biodiversità, come l'estinzione di specie animali dovuta al cambiamento climatico, è particolarmente difficile perché coinvolge fattori che non sono facilmente quantificabili, come il valore intrinseco di diverse specie animali e gli impatti a lungo termine sugli ecosistemi.

          Quali sono alcuni esempi di tentativi di integrare la natura nei mercati finanziari?

          Nonostante le difficoltà nell'assegnare un valore monetario alle esternalità ambientali e ai servizi ecosistemici, i mercati finanziari potrebbero offrire strumenti e meccanismi per affrontare queste sfide tenendo conto dell'impatto ambientale delle aziende e incanalando gli investimenti verso iniziative sostenibili. Sviluppando strumenti finanziari che riconoscano il valore delle risorse naturali, potremmo incentivare le aziende a dare priorità alla salvaguardia dell'ambiente. Questo approccio potrebbe aiutare a quantificare il valore della natura e a indirizzare i fondi verso iniziative con impatto ambientale positivo. Nelle sezioni seguenti, esamineremo come i mercati finanziari stanno tentando di incorporare il valore della natura e valutare l'efficacia di questi sforzi.
          Investimenti sostenibili
          Gli investimenti sostenibili mirano a generare rendimenti finanziari promuovendo al contempo il valore ambientale o sociale. Spesso etichettati "ESG" (ambientale, sociale e di governance), questi investimenti comprendono un'ampia gamma di strumenti. Questi spaziano dai green bond (titoli di debito emessi per finanziare progetti con impatti ambientali positivi) agli exchange-traded fund (ETF) focalizzati su ESG che selezionano azioni o obbligazioni in base a criteri ESG.
          Nonostante le recenti reazioni negative, la domanda di investimenti ESG è aumentata negli ultimi anni e si prevede che continuerà a crescere negli Stati Uniti. Uno studio recente mostra che, nell'anno successivo alla pubblicazione dei rating di sostenibilità da parte di una nota agenzia di rating nel 2016, i fondi "ad alta sostenibilità" hanno registrato 24 miliardi di dollari di afflussi netti, mentre i fondi "a bassa sostenibilità" hanno registrato invece 12 miliardi di dollari di deflussi netti. Ciò è avvenuto nonostante la mancanza di prove che i fondi ad alta sostenibilità superino i fondi a bassa sostenibilità.
          Tuttavia, permangono notevoli preoccupazioni in merito all'efficacia e alla trasparenza delle etichette ESG. Un'analisi dei fondi comuni di investimento auto-etichettati ESG negli Stati Uniti ha rilevato che questi fondi detenevano un portafoglio di aziende con "peggiori precedenti di conformità alle leggi sul lavoro e sull'ambiente" rispetto a quelli detenuti da fondi non ESG all'interno delle stesse istituzioni finanziarie tra il 2010 e il 2018. Gli autori hanno scoperto che, nonostante i fondi ESG detenessero portafogli di aziende con punteggi ESG più elevati, questi punteggi erano correlati alla quantità di informative volontarie relative all'ESG piuttosto che a effettivi record di conformità o livelli di emissioni di carbonio.
          Un altro studio che ha analizzato i dati sulle emissioni di oltre 3.000 aziende tra il 2002 e il 2020 suggerisce che le strategie di investimento sostenibile che comportano il disinvestimento dalle aziende "marroni" a favore di quelle "verdi" potrebbero essere controproducenti. Gli autori hanno scoperto che quando le aziende "verdi" sperimentano un costo del capitale inferiore, le loro emissioni non cambiano molto, ma quando le aziende "marroni" sperimentano un costo del capitale più elevato, le loro emissioni aumentano in modo significativo. Questo perché il disinvestimento dalle aziende "marroni" aumenta il loro costo del capitale e le costringe a continuare a utilizzare i loro attuali metodi di produzione ad alto inquinamento piuttosto che investire in nuove tecnologie verdi che potrebbero ridurre le emissioni.
          Infine, un'analisi degli accordi finanziari sulla biodiversità dal 2020 al 2022 ha rilevato che circa il 60% è stato finanziato esclusivamente da capitale privato, mentre il restante 40% ha coinvolto "finanza mista", ovvero capitale privato combinato con finanziamenti pubblici o filantropici. Lo studio ha anche rivelato che il capitale privato puro tendeva a finanziare accordi su piccola scala con rendimenti finanziari attesi più elevati ma impatti sulla biodiversità meno ambiziosi. Al contrario, la finanza mista è stata utilizzata per progetti su larga scala con una redditività inferiore ma impatti sulla biodiversità più ambiziosi. Gli autori suggeriscono che la finanza mista è uno strumento utile per attrarre investitori privati ​​riducendo il loro rischio e colmando il divario di redditività.
          Crediti
          I crediti ambientali sono strumenti finanziari che consentono agli acquirenti di supportare indirettamente specifiche azioni ambientali. Ad esempio, acquistando crediti di carbonio, un investitore paga un'altra azienda per ridurre le sue emissioni di gas serra (GHG). Rispetto ad altri tipi di crediti emergenti, il mercato dei crediti di carbonio è ben consolidato: nel 2022, il mercato volontario del carbonio aveva una dimensione di mercato di circa 2 miliardi di $ che copriva 1,7 gigatonnellate di carbonio e i mercati di conformità avevano una dimensione di mercato di circa 850 miliardi di $ che coprivano poco meno del 20% delle emissioni globali di GHG nel 2021.
          Altri tipi di crediti correlati alla natura, come i crediti di biodiversità, sono stati proposti per creare ricompense finanziarie per la conservazione. Con questo modello, un'azienda elabora un piano per migliorare la biodiversità e lo implementa con un monitoraggio regolare, da parte dell'azienda stessa o di una terza parte. Un credito di biodiversità viene generato quando il monitoraggio conferma che sono stati raggiunti specifici obiettivi di biodiversità. Il credito può quindi essere venduto, con i ricavi condivisi tra il proprietario terriero e lo sviluppatore del credito di biodiversità. Alcune aziende hanno iniziato a vendere crediti di biodiversità e le Nazioni Unite stanno attualmente facilitando un'alleanza internazionale volontaria sui crediti di biodiversità. L'UE sta anche esplorando i crediti di biodiversità e i crediti di carbonio collegati alla biodiversità attraverso il suo progetto Climate Biodiversity Nexus.
          Le sfide che questi crediti basati sulla natura devono affrontare includono la garanzia che i ricavi derivanti dai crediti siano utilizzati per raggiungere gli obiettivi prefissati e la misurazione accurata dell'impatto ambientale.
          Aziende di conservazione della natura
          Un altro approccio all'internalizzazione delle esternalità ambientali nei mercati finanziari è la creazione di società di conservazione della natura. Lo scopo principale di queste società è acquistare o affittare terreni e gestirli per generare servizi ecosistemici. I proprietari terrieri possono donare o vendere servitù di conservazione, il che comporta la perdita di determinati diritti da parte del proprietario terriero, come il diritto di sviluppare o suddividere il terreno. Ci sono 221.256 servitù di conservazione che coprono circa 38 milioni di acri di terreno negli Stati Uniti. Mentre le servitù di conservazione sono associate a benefici fiscali per i proprietari terrieri, l'Internal Revenue Service ha osservato abusi di questi vantaggi fiscali.  
          In alcuni casi, si prevede che queste società siano quotate in borsa e quotate in borsa, con l'idea che il processo di determinazione del prezzo associato alla negoziazione rispecchi il valore della protezione delle risorse naturali. Questo modello è stato preso in considerazione dalla Securities and Exchange Commission quando la Borsa di New York ha proposto di quotare le "società di risorse naturali" da quotare in borsa. Sebbene la proposta sia stata ritirata nel gennaio 2024, il New York Times nota che sono in corso prototipi di questo modello nei mercati privati.
          Le aziende che preservano la natura mirano a generare rendimenti economici parallelamente ai loro sforzi di conservazione. Questi rendimenti sono in genere ottenuti tramite la vendita di crediti di carbonio o attività economiche come agricoltura sostenibile, affitto di immobili, produzione di energia rinnovabile ed ecoturismo. I proventi di queste attività possono essere utilizzati per rimborsare i prestiti utilizzati per acquistare il terreno.
          Integrare il valore della natura nelle aziende che preservano la natura è una sfida per diversi motivi. In primo luogo, le formule di valutazione finanziaria di base implicano che il prezzo delle azioni di un'azienda sia il valore scontato di tutti i flussi di cassa futuri che gli investitori si aspettano che generi. Nei mercati competitivi, le aziende basate sulla natura dovrebbero offrire rendimenti competitivi ai propri investitori per assicurarsi il finanziamento di cui hanno bisogno per operare con successo. Tuttavia, per generare tali profitti, le aziende potrebbero essere costrette a monetizzare i servizi ecosistemici o a estrarre valori dalle risorse naturali che supervisionano piuttosto che preservarle. Se questa estrazione di valore è necessaria per attrarre investitori, le attività economiche dovrebbero essere condotte in modo sostenibile e trasparente, ad esempio tramite agricoltura sostenibile o ecoturismo.
          Un'altra sfida riguarda la garanzia di trasparenza e di una rigorosa supervisione delle attività delle aziende che preservano la natura. Queste aziende devono dimostrare che le loro operazioni apportano un reale beneficio all'ambiente, ma misurare la biodiversità, ad esempio, è intrinsecamente difficile a causa della sua natura complessa. Anche l'implementazione dei quadri di auditing e reporting necessari per monitorare queste attività è un compito complesso, che spesso richiede risorse e competenze significative. La mancanza di parametri standardizzati per la biodiversità ostacola ulteriormente la capacità degli investitori di valutare il vero impatto dei loro investimenti.
          Nonostante queste sfide, le aziende che preservano la natura incarnano la potente idea che attribuire valore ai benefici intrinseci della natura è essenziale per la sua preservazione. Attirando capitale privato negli sforzi di conservazione, possono soddisfare esigenze di finanziamento che il governo e la filantropia da soli non possono soddisfare. Dato il significativo divario di finanziamento per prevenire la perdita di biodiversità, stimato in oltre 700 miliardi di dollari all'anno, la speranza è che, con adeguate tutele e operazioni trasparenti, le aziende che preservano la natura possano contribuire in modo significativo alla preservazione ambientale offrendo agli investitori la prospettiva di rendimenti a lungo termine.

          Conclusioni

          Valutare la natura nei mercati finanziari è un compito essenziale ma complesso che richiede approcci innovativi e attente considerazioni. Mentre l'attuale stato degli investimenti sostenibili e delle aziende che preservano la natura offre qualche promessa, restano sfide significative per garantire che la natura sia adeguatamente valutata e protetta. Affrontando queste sfide, possiamo creare istituzioni finanziarie che supportano lo sviluppo economico promuovendo al contempo la sostenibilità ambientale.
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          La politica monetaria in risposta agli shock tariffari

          CEPR
          I risultati delle recenti elezioni presidenziali statunitensi hanno riacceso il dibattito sugli effetti macroeconomici dei dazi e sulla risposta appropriata della politica monetaria a una guerra commerciale. Durante la prima amministrazione Trump, i dazi statunitensi sulle esportazioni cinesi sono aumentati di sette volte tra il 2018 e il 2020 e sono rimasti elevati sotto l'amministrazione Biden. Ancora più concretamente, le tendenze politiche globali indicano un significativo indebolimento del consenso globale in merito al libero scambio e annunciano un nuovo ambiente in cui le banche centrali potrebbero affrontare questo nuovo tipo di shock con frequenza crescente.
          Gran parte della ricerca recente sugli effetti macroeconomici degli shock di politica commerciale è stata condotta nel contesto di modelli commerciali reali o in esercizi empirici senza considerare la politica monetaria. Ma le conseguenze delle frizioni commerciali ovviamente sfidano le banche centrali: come dovrebbero rispondere a un passo indietro nel progresso verso una crescente integrazione commerciale, con effetti potenzialmente significativi su inflazione, attività economica, saldi esteri e tassi di cambio reali? In un recente articolo (Bergin e Corsetti 2023), studiamo le risposte ottimali di politica monetaria agli shock tariffari di vario tipo. In questa rubrica, aggiorniamo l'analisi e distilliamo le lezioni appropriate alla situazione attuale.
          Nel nostro articolo, studiamo le risposte ottimali di politica monetaria agli shock tariffari utilizzando un modello neo-keynesiano standard a economia aperta (prezzo rigido) aumentato con catene del valore internazionali nella produzione, vale a dire che i beni importati sono utilizzati nella produzione di beni nazionali ed esportazioni. Ciò implica che l'aumento della protezione tariffaria degli esportatori nazionali aumenta il costo di produzione per le aziende nazionali. In tutta la nostra analisi, assumiamo una quota di input importati nella produzione vicina alle stime basate sulle tabelle input-output degli Stati Uniti per il 2011 (ma verifichiamo anche le nostre conclusioni principali variando questa quota). La nostra analisi principale presuppone un sostanziale passaggio delle tariffe ai prezzi al consumo, ma dimostriamo anche la robustezza dei nostri risultati principali nell'arricchire il modello con un settore di distribuzione che limita il passaggio. Infine, postuliamo che le autorità monetarie non sfruttano le ricadute transfrontaliere per perseguire politiche beggar-thy-neighbour, vale a dire escludiamo la manipolazione opportunistica del tasso di cambio.
          Per riassumere il nostro messaggio principale: anche se c'è un ampio consenso sul fatto che i nuovi dazi di Trump saranno probabilmente inflazionistici per gli Stati Uniti, è tutt'altro che ovvio che la risposta ottimale della politica monetaria a questi dazi dovrebbe concentrarsi sulla lotta a questi effetti inflazionistici tramite la contrazione monetaria. Gli shock tariffari combinano elementi di perturbazioni sia della domanda che dell'offerta, e la politica monetaria è destinata ad affrontare un difficile compromesso tra moderazione dell'inflazione e sostegno all'attività economica; in effetti, una ragionevole calibrazione del nostro modello indica che la risposta monetaria ottimale a tale scenario potrebbe benissimo comportare un'espansione monetaria. La nostra analisi sottolinea che, mentre la risposta monetaria ottimale ai dazi dipende da diversi fattori, un ruolo chiave è svolto da (i) la probabilità che i dazi siano ricambiati in una guerra commerciale, (ii) il grado di dipendenza della produzione nazionale da intermedi importati e (iii) il ruolo speciale del dollaro USA come valuta dominante per la fatturazione del commercio internazionale. Discutiamo a turno diversi casi.

          Le ragioni per un inasprimento monetario: tariffe unilaterali senza ritorsioni

          Consideriamo prima la logica del restringimento monetario. Ciò sarebbe chiaro in uno scenario in cui gli USA impongono unilateralmente una tariffa sugli acquisti nazionali di beni esteri per aumentare la domanda di beni nazionali, causando un'inflazione nel prezzo pagato dai consumatori e dai produttori nazionali che utilizzano input importati.
          Nella Figura 1, utilizziamo il nostro modello per tracciare gli effetti di uno shock tariffario unilaterale. Le linee tratteggiate tracciano l'effetto di tale shock nel tempo mantenendo costanti i tassi di riferimento: PIL e inflazione aumentano negli Stati Uniti, ma si muovono nella direzione opposta nel partner commerciale degli Stati Uniti (il paese straniero). Al tasso di cambio corrente, la bilancia commerciale degli Stati Uniti si trasforma in un surplus.La politica monetaria in risposta agli shock tariffari_1
          Considerando questi risultati di base, una politica di contrazione monetaria interna (USA) può essere motivata dalla necessità di moderare l'inflazione, corrispondente all'espansione monetaria all'estero per moderare la deflazione. Ma un'ulteriore motivazione può essere trovata nel fatto che la divergenza nella posizione di politica interna ed estera contribuisce ad apprezzare la valuta nazionale, il che può servire ad abbassare il prezzo effettivo dei beni esteri che i consumatori nazionali vedono, e quindi compensare in parte l'effetto distorsivo delle tariffe sui prezzi relativi.
          Queste considerazioni sono alla base del comportamento delle variabili macroeconomiche in base alla politica ottimale, tracciata come una linea continua nella figura. Le autorità monetarie statunitensi frenano l'inflazione, che nel nostro caso serve anche a moderare l'aumento interno della produzione. Il calo della domanda e l'apprezzamento del dollaro riducono in qualche modo il surplus commerciale. All'estero, le autorità monetarie sostengono l'attività a costo dell'inflazione, contribuendo a correggere in parte il prezzo relativo internazionale dei beni distorti dalla tariffa.
          As we show in our paper, the conclusions so far remain valid also when the degree of exchange rate pass through is low across all borders, i.e. prices are sticky in the currency of the export destination country. A low pass through reduces the effect of currency depreciation on relative prices, and monetary policy cannot rely on currency depreciation to redirect global demand towards own traded goods. Yet, in response to a unilateral tariff, the optimal stance is still contractionary at home and expansionary abroad.

          The case for monetary expansions: Trade wars

          Where our paper is more innovative is in showing that the optimal policy is generally expansionary in the case of a symmetric tariff war – say, if the foreign country retaliates with equivalent tariffs on imports of US goods. In this case, the US experiences not only higher inflation but also a drop in output, driven by the fall in global demand induced by the hike in trade costs. Trade wars present policymakers with a choice between moderating headline inflation with a monetary contraction, or instead moderating its negative impact on output and employment with a monetary expansion. 
          The trade-off confronting central banks is illustrated by the dashed lines in Figure 2, drawn for a symmetric war, under the assumptions that the pass through of the exchange rate on border prices is very high. The contractionary effects of the tariff war include a deep drop in gross exports worldwide. Inflation spikes, while output falls.La politica monetaria in risposta agli shock tariffari_2
          A trade-off between inflation and unemployment is obviously not unfamiliar to policymakers. If it were generated by a standard supply shock – say, a fall in productivity – standard macro models would suggest optimal policy would choose monetary contraction to stabilise inflation. However, as stressed in our analysis, tariffs are quite different from a standard productivity shock, in that they combine elements of supply shocks with demand shocks, and the optimal policy consequently tends to be quite different.  One way to see this is that while a tariff war raises the average price of all consumption goods, including imports, the contraction in global demand tends to reduce the prices set by domestic firms. In other words, tariffs raise CPI inflation but tend to depress PPI inflation. In a retaliatory trade war, it is optimal to expand and stabilise PPI inflation despite the hike in CPI inflation hitting consumers. This is shown by the solid lines in Figure 2, drawn for one country (the conclusion applies symmetrically of course to all countries engaging in the trade war).
          While we have demonstrated above that tariff shocks are quite different from productivity shocks, it is also important not to confuse tariff shocks with cost-push markup shocks. First, a home tariff shock only affects the prices of imported goods, while markup shocks are typically envisioned as affecting domestically produced goods. Second, the revenue generated by a tariff shock accrues to the importing country, while the profits from higher markups go to firms in the exporting country. Third, tariffs are imposed directly on the buyer, thus added on top of the price set by the exporter. Our model highlights the unique nature of tariff shocks relative to these other supply disturbances; even while monetary contraction is the optimal response to adverse productivity or markup shocks in the context of our model, monetary expansion is the optimal response to a tariff shock generating inflation.
          Our analysis fully accounts for the fact that production in the US uses a high share of imported intermediate inputs, i.e. higher production costs amplify the supply-side implications of the tariff relative to the demand implications. Indeed, in our quantitative exercises, we find that the optimal response to a trade war becomes contractionary at a particularly high share of imported intermediate inputs in production. But based on input–output estimates of this share (and extensive robustness analysis in which we vary the share), we believe that our benchmark conclusion (prescribing an expansionary monetary stance) can be expected to be more relevant empirically.

          The ‘privilege’ of issuing the dominant currency in international trade

          The US dollar has a special role as the dominant currency used in international trade of goods. It is well known that if the prices of imports in all countries are sticky in dollar units, the US (the dominant currency country) can rely to a much larger extent on monetary policy as a stabilisation tool. That is, it should be in a better position to redress the distortionary effects of the tariff shock on own output and employment, with relevant implications for the rest of the world.
          Consideriamo prima una guerra tariffaria, raffigurata nella Figura 3 (di nuovo, le linee tratteggiate tracciano lo scenario senza politica, le linee continue lo scenario di politica ottimale). All'impatto, la guerra è uno shock restrittivo globale. Nel paese con valuta dominante, la risposta monetaria ottimale è ora relativamente più espansionistica, poiché le autorità monetarie nazionali possono porre rimedio alla mancanza di domanda globale senza alimentare l'inflazione degli input importati alla frontiera: le importazioni in dollari si muovono molto poco con un deprezzamento del dollaro. Un'espansione nel paese con valuta dominante è una buona notizia per l'altro paese: contiene il calo della domanda globale e riduce l'inflazione importata lì (un deprezzamento del dollaro significa che gli importatori all'estero pagano un prezzo più basso in valuta nazionale alla frontiera). Per questo motivo, anche se gli aumenti delle tariffe sono perfettamente simmetrici, l'altro paese si trova in una posizione diversa. Invece di eguagliare l'espansione negli Stati Uniti, ricorre a una lieve contrazione iniziale per contenere l'inflazione. Si noti che, mentre il PIL diminuisce in entrambi i paesi, diminuisce meno nel paese che emette la valuta dominante. In questo scenario il dollaro statunitense si deprezza.La politica monetaria in risposta agli shock tariffari_3
          Come abbiamo discusso sopra, nel caso in cui la tariffa sia imposta unilateralmente dal paese con valuta dominante, la domanda globale di esportazioni da parte di questo paese non subisce gli effetti di una tariffa di ritorsione. Quindi, l'inflazione diventa una preoccupazione più urgente per le autorità monetarie: la posizione ottimale è restrittiva. La contrazione può ora essere più forte, perché l'apprezzamento del dollaro ha effetti di spiazzamento più attenuati sui beni statunitensi nel mercato internazionale. La contrazione più forte ha ripercussioni globali. All'estero la posizione ottimale diventa espansiva, per stimolare la domanda interna rispetto al calo delle esportazioni verso gli Stati Uniti, tollerando l'inflazione ed esacerbando il deprezzamento della valuta. Il dollaro statunitense si apprezza fortemente in questo scenario.

          Conclusioni

          Gli shock tariffari potrebbero presentare ai decisori politici una scelta particolarmente difficile tra moderazione dell'inflazione e output gap. Diversi fattori della situazione attuale suggeriscono che, anche se è probabile che i dazi siano inflazionistici, potrebbe essere ottimale per la politica concentrarsi maggiormente sulla caduta inefficiente della produzione. Questi fattori includono la probabilità che i dazi statunitensi possano essere ricambiati in una guerra tariffaria, il fatto che le attuali minacce tariffarie sembrano incentrate maggiormente sui beni di consumo finali piuttosto che sugli input intermedi nella produzione nazionale e il fatto che il dollaro statunitense ha una posizione asimmetrica nel commercio mondiale come valuta dominante.
          Fonte: CEPR
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          Comprendi e riconosci che esiste un alto grado di rischio coinvolto nel trading con strategie. Seguire qualsiasi strategia o metodologia di investimento è il potenziale di perdita. Il contenuto del sito viene fornito dai nostri collaboratori e analisti solo a scopo informativo. Tu solo sei l'unico responsabile di determinare se qualsiasi attività di negoziazione, o titolo, o strategia, o qualsiasi altro prodotto è adatto a te in base ai tuoi obiettivi di investimento e alla tua situazione finanziaria.
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          Una strategia di investimento per mantenere il Green Deal europeo sulla buona strada

          Bruegel

          Economico

          Di quanti investimenti verdi ha bisogno l'UE? 

          Non c'è transizione verde senza investimenti verdi. Stimolare questo sarà la sfida principale per il Green Deal europeo nei prossimi cinque anni, creando o distruggendo le possibilità dell'Unione europea di raggiungere i suoi obiettivi climatici e rafforzando la sua competitività e sicurezza.
          Ma quanti investimenti verdi sono realmente necessari per raggiungere gli obiettivi climatici dell'UE? Per valutarlo, sono necessarie informazioni di buona qualità a livello nazionale. Ma nonostante il Green Deal europeo e le numerose iniziative che ha innescato, questo rimane sorprendentemente incompleto e incoerente. Nella migliore delle ipotesi, alcuni dei piani nazionali per l'energia e il clima (NECP) dei paesi dell'UE forniscono stime generali della quantità di investimenti necessari per raggiungere l'obiettivo del 2030, senza specificare come tali stime sono state calcolate, rendendo impossibile valutarne l'affidabilità, confrontarle in modo coerente o monitorare i progressi verso la decarbonizzazione (ECA, 2023).
          In assenza di informazioni ufficiali nazionali affidabili, le esigenze di investimenti verdi dell'Europa possono essere meglio comprese esaminando le stime ex ante della Commissione europea per l'UE nel suo complesso, nelle valutazioni d'impatto alla base degli obiettivi climatici per il 2030 e di quelli proposti per il 2040 (Commissione europea, 2020, 2024).
          Secondo la Commissione, tra il 2011 e il 2020, gli investimenti totali in fornitura energetica (vale a dire centrali elettriche e rete elettrica), domanda energetica (vale a dire edifici, industria, agricoltura) e trasporti (vale a dire automobili, camion, trasporti pubblici) hanno raggiunto in media il 5,8 percento del PIL. Per raggiungere l'obiettivo climatico dell'UE per il 2030 saranno necessari ulteriori investimenti annuali pari a circa il due percento del PIL tra il 2021 e il 2030, un livello che deve essere mantenuto per due decenni per raggiungere lo zero netto (Tabella 1).Una strategia di investimento per mantenere il Green Deal europeo sulla buona strada_1
          Queste stime sono ampiamente in linea con i risultati di Pisani-Ferry e Mahfouz (2023) per la Francia e con le stime globali dell'Agenzia internazionale per l'energia (IEA, 2023b), dell'Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA, 2023) e di Bloomberg New Energy Finance (BNEF, 2024). Sono inoltre allineate con le stime per le esigenze aggiuntive di investimenti verdi nel 2025-2030 nel rapporto Draghi (2024) sulla competitività europea, che si basano a loro volta su calcoli della Commissione europea e della Banca centrale europea. Infine, Bizien et al (2024) hanno confermato che il divario tra gli attuali investimenti climatici dell'UE e le stime della Commissione sulle esigenze future ammontava nel 2022 a circa il 2,5 percento del PIL.

          Esigenze di investimenti dell’UE per il clima: adeguamenti e avvertenze 

          Le stime principali della Commissione Europea sulle esigenze di investimenti verdi sono imperfette. Il costo di investimento di alcune voci principali è sovrastimato. Altre importanti esigenze di investimento legate al clima non sono incluse. Anche dopo aver corretto le sovrastime e le sottostime, le cifre sono soggette a notevole incertezza.
          Esagerazioni
          I numeri principali della Commissione indicano i trasporti come la principale voce di spesa di gran lunga, ma il 60 percento di questa necessità di investimenti deriverebbe dalla sostituzione delle auto che avverrebbe comunque (sulla base di una durata media di vita delle auto di circa 10 anni; ACEA, 2023). Se si esclude questo, la Commissione si aspetta che gli investimenti aggiuntivi nei trasporti coerenti con il raggiungimento dello zero netto siano limitati: 0,5 percento del PIL all'anno dal 2021 al 2030. Invece, si prevede che il settore energetico e gli edifici saranno i principali settori che richiedono sforzi aggiuntivi per raggiungere gli obiettivi climatici. In questi due settori, si prevede che le necessità di investimenti raddoppieranno quasi come quota del PIL nello stesso periodo.
          I numeri principali della Commissione tentano anche di tenere conto del cambiamento comportamentale. Ciò è probabilmente significativo, poiché ulteriori misure comportamentali (ad esempio, accelerati cambiamenti modali e modelli di mobilità sostenibile, risparmio energetico, riciclaggio) potrebbero ridurre le esigenze di investimenti verdi dell'UE di circa l'otto percento (Tabella 2).
          Una strategia di investimento per mantenere il Green Deal europeo sulla buona strada_2
          Eufemismi
          I numeri della Commissione Europea si riferiscono solo alle spese in conto capitale (CAPEX) e non includono i costi di finanziamento. Vale la pena menzionarlo perché mentre il CAPEX rappresenta la principale voce di costo nella transizione verde, il costo del finanziamento degli investimenti sarà significativo per gli agenti con vincoli di liquidità e le finanze pubbliche dovranno intervenire con strumenti di de-risking per facilitare gli investimenti privati.
          I numeri della Commissione prendono in considerazione solo il lato di distribuzione della decarbonizzazione e non includono il lato manifatturiero. Vale a dire, queste cifre non tengono conto dei costi di produzione di tecnologie pulite necessari per raggiungere gli obiettivi di politica industriale dell'UE, come quelli delineati nel Net-Zero Industry Act (NZIA, regolamento (UE) 2024/1735). La Commissione stima che aumentare le capacità di produzione di tecnologie pulite in Europa per soddisfare almeno il 40 percento delle esigenze di distribuzione annuale dell'UE entro il 2030 richiederebbe investimenti totali aggiuntivi di circa 100 miliardi di euro nel periodo 2024-2030. Ciò equivale a circa lo 0,1 percento del PIL.
          Riteniamo che questa stima sia molto prudente, in particolare perché la NZIA si concentra solo su una selezione limitata di tecnologie e catene di fornitura nazionali e trascura i costi dei programmi di potenziamento delle competenze e di garanzia dell'accesso alle materie prime strategiche critiche sottostanti. Inoltre, le esigenze di investimenti verdi nella produzione potrebbero essere molto maggiori se si ritiene che la sicurezza economica richieda un reshoring aggressivo.
          Finally, the Commission’s estimates deal only with the mitigation side of climate action and do not include climate adaptation investment. This is a major gap, as the EU’s need for climate adaptation already is and will be substantial, even if mitigation proceeds on schedule. Estimates of adaptation investment involve considerable uncertainty. For the EU they are currently estimated to range between €35 billion and €500 billion annually, a huge range that reflects different underlying assumptions and methodological approaches (EIB, 2021a). It is urgent to narrow the range of plausible estimates and develop better assessment of the distribution of those investments over time and across countries.
          Additional uncertainty
          The above estimates are underpinned by a number of assumptions, including on the trajectory of the carbon price, timing of decarbonisation efforts, the role of innovation in slashing clean-tech costs and system substitutability. These of course could change. It should also be clear that the estimates are only for decarbonisation investments, and do not include the other environmental and circular economy parts of the European Green Deal. Nor do they include the investments required to mobilise all the necessary resources, such as reskilling/upskilling of workers from brown to green industries and measures to tackle the social implications of climate policy. This last point is particularly relevant, because there will be a great need from 2025-2030 to deal with the complex distributional implications of buildings and transport decarbonisation, from which emissions reductions have so far been relatively small. Avoiding political backlash may involve offering financial incentives to households in return for adopting costlier green technologies. 
          To summarise: because behavioural changes could be more significant than assumed, the European Commission’s headline investment estimates could be overestimating overall and private mitigation-related investment needs (section 2.1). However, total climate-related transition needs should also include adaptation investments, the costs of reskilling and the cost difference between investment in green tech and the investment in brown tech that would otherwise have happened. The size of these excluded items in very uncertain, mostly because of uncertainty surrounding adaptation needs. Consequently, the total investment need for the green transition up to 2030 is likely to exceed the Commission’s estimates by a wide margin. This is even more the case for the transition up to 2040.

          Public investment needs to reach the EU 2030 climate goal

          If achieving the EU climate goals requires a substantial increase in investment, who is going to pay? The European Commission does not provide specific figures for this, mentioning only that the private sector is expected to be the main source of investment in the electricity system and industry, while public funding is expected to play a substantial role in the buildings and transport sectors, and in supporting innovative clean-tech uptake in the energy system and the industrial sector.
          EIB (2021b) and Darvas and Wolff (2022) estimated the public share of green investment to be about 25 percent. However, these exercises are characterised by high uncertainty. For instance, by providing estimates for each category of investment, Pisani-Ferry and Mahfouz (2023) estimated this share to be higher for France: 50 percent in an optimal scenario for the country, also because of France’s larger public sector and greater share of public buildings than other countries. This higher figure is in line with a granular analysis by Baccianti (2022)  for the EU, the central scenario of which also points to a roughly 50 percent public share of green investment.
          Based on these different exercises, we can assume the public share of additional green investments from 2025-2030 to range between 25 percent and 50 percent. Given that the annual additional investments to reach the EU 2030 climate target are estimated at two percent of GDP, the additional public effort to reach the EU 2030 climate target would thus range between 0.5 percent and one percent of GDP over 2025-2030.
          Given limited public finances, it will be crucial to make all the necessary efforts to stay at the lower end of this range. In other words, the available resources should be focused on those areas where private finance alone cannot deliver (ie where clear market failures exist). This includes:
          RD support and support for early adoption of innovative clean technologies. This is what allows the creation of economies of scale, leading to steep cost reductions, which in turn progressively reduce the need for public support as the ‘green premium’ thins out. This has happened with wind and solar energy. IRENA estimated that between 2010 and 2022, the average cost of generating electricity from solar PV fell by 89 percent – currently almost one-third cheaper than the cheapest fossil fuel globally – while the cost of generating electricity with onshore wind fell by 69 percent. This is why countries including Germany have been able to rethink their investment support for renewables, and why the share of public investment to meet EU climate targets in the power sector is estimated in the relatively low range of 15 percent to 20 percent (Baccianti, 2022).
          Financing electricity and transport infrastructure, as well as renovation of public buildings. For example, public funding will need to pay for a significant share of investment in railway networks, public transport and district heating (Baccianti, 2022; OBR, 2021).
          Provision of financial de-risking tools to lower the cost of capital for private investors in green projects. Many clean technologies are characterised by high CAPEX and low operating costs (OPEX). This is true for wind and solar generation, electric vehicles and buildings retrofitting. The cost of capital thus plays a key role in the green transition, providing a critical benchmark to assess the risk and return preferences of investors, and acting as a lever for financial flows to influence prices and choices in the real energy economy (IEA, 2021). Lowering the cost of capital to foster private investment can be done through instruments such as preferential loans and guarantees to both firms and households. For instance, zero-interest loans in France, granted under the éco-Prêt à Taux Zéro (éco-PTZ) programme boosted energy-renovation rates across the country thanks to high take-up among the middle class (Eryzhenskiy et al, 2022).
          Provision of direct financial support and compensation to the most vulnerable to ensure a socially fair transition. For most vulnerable households, direct public support is needed to compensate for the higher energy costs linked to climate policy, and to ensure take-up of green alternatives. For example, the phase-in of an EU carbon price on household and road transport emissions will likely be regressive, disproportionally affecting vulnerable households that rely on fossil fuels for domestic heating and lack the resources needed to change their vehicles. Directing support to the most vulnerable would help reduce both emissions and energy poverty. For instance, prioritising grants for the worst-performing buildings, often occupied by vulnerable consumers, will yield climate benefits and benefits in terms of improved air quality, health, productivity, energy security and lower future government outlays to alleviate energy poverty (Vailles et al, 2023; Keliauskaite et al, 2024).
          The upshot is that the EU has embarked on a transformational transition without mapping out in detail how much investment this transition will require, and without equipping itself with the capacity to monitor, either at EU-level or national level, the actual efforts and the remaining investment gap. Knowing the rough direction of travel is like crossing the Atlantic without a compass, and is not enough. 

          A perfect storm for 2025-2030

          Even if governments can ensure the substitutability of public finance with private finance, achieving the EU’s 2030 climate goal will still require public investment during 2025-2030 of at least 0.5 percent of GDP. Delivering this will be tough for five main reasons.
          The main source of EU grants for the green transition is running out
          Since the launch of the European Green Deal in 2019, the EU has played an increasingly direct role in fostering green investment, including through carbon pricing and regulations, and also by offering financial incentives. Balancing prohibitions and incentives is crucial to ensure the political viability of the green transition and to avoid a dangerous ‘blame game’ with national capitals (Pisani-Ferry et al, 2023). Two major steps have been taken on the financing of the green transition. First, its was decided to set a 30 percent minimum green spending threshold in the EU budget (the multiannual financial framework, MFF), amounting to about €1 trillion for 2021-2027. Second, a 37 percent minimum green spending threshold was established for the main part of the NextGenerationEU post-pandemic instrument, the Recovery and Resilience Facility (RRF), which was endowed with financial firepower of €723 billion for 2021-2026, including €338 billion in grants.
          The RRF is currently the largest source of EU grants for the green transition, especially for buildings and transport decarbonisation (Lenaerts and Tagliapietra, 2021). On top of the MFF, green grants from the RRF and other instruments – the Innovation Fund, the Modernisation Fund and the Just Transition Fund – amount to about €50 billion per year.
          But the RRF ends in 2026. This will leave a major gap in EU funding for the green transition, which will decrease to slightly less than €20 billion per year. In other words, a gap of about €180 billion for the 2024 to 2030 period will open up (Pisani-Ferry et al, 2023). This is highly problematic. It will happen just as EU countries are required to deepen their decarbonisation efforts substantially, starting with difficult sectors such as buildings and transport. The risk of political pushback from national capitals will likely be serious as a result.
          The reformed EU fiscal framework is not conducive to green investment
          A reform of the EU’s fiscal framework – which implements the EU Treaty requirement for countries to keep their budget deficits within 3 percent of GDP, and their public debt within 60 percent of GDP – took effect in April 2024. The framework as updated imposes restrictions that could make the financing of new green investment at national level very difficult for countries with debts and deficits considered excessive. Furthermore, the reformed fiscal framework does not include a ‘green golden rule’, which would exclude any increase in net green public investment from the fiscal indicators used to measure compliance with the fiscal rules. Nor does it provide exemptions even for EU-endorsed national green investments (see Box 1). These constraints make public investment for decarbonisation harder to realise.
          False narratives on climate policies are increasingly promoted 
          Even before the 2024 US presidential election, swings to populist nationalist parties in large countries including Germany and France suggested unease among voters about climate policy. These parties indeed often preach the false belief that decarbonisation is detrimental to competitiveness and security, when it is exactly the opposite. Green investment is fundamental for the EU to meet its pressing competitiveness and security objectives, even if complex trade-offs exist between these different societal objectives.
          Being poorly endowed with domestic resources, Europe is highly dependent on fossil-fuel imports, as dramatically illustrated by the 2022-2023 energy crisis. This exposes the EU to global oil and gas market volatility, undermining competitiveness and threatening security. For Europe, the only structural solution is the green transition. The EU is endowed with abundant domestic renewable energy resources, which can be exploited in a cost-effective manner, as generating electricity with wind and solar energy is now cheaper than doing so with coal and gas (Ember, 2024). 
          It is important to note that these estimates exclude subsidies, tax credits and system integration costs (eg grid connection and flexibility solutions to cope with intermittent renewable energy sources). It should also be mentioned that deploying renewables rapidly will not only lower wholesale power prices, but also cut bills for households, even accounting for additional costs such as grid expansion (Ember, 2024). This is the result of the global roll-out of clean technologies and continuing cost reductions in this sector (Claeys et al, 2024). According to the IEA (2023a), EU electricity consumers saved €100 billion during the peak of the energy crisis in 2021-2023 thanks to additional electricity generation from newly installed solar PV and wind capacity.
          While decarbonisation was a priority in its own right until 2022, it is now the only available way to structurally secure energy supplies and to lower energy costs for the European economy. However, it will take time to get there. Most modelling exercises, including the European Commission’s, expect renewables to really cut electricity prices only in the early 2030s (Gasparella et al, 2023). For this to happen, massive investments will be required for renewable generation build-up, electricity grid expansion and provisions of flexibility solutions, such as electricity storage.
          The trade-offs between decarbonisation, competitiveness and security are increasingly difficult
          Decarbonisation raises three main issues: the fiscal cost, impact on competitiveness and implications for economic security. All three objectives of fiscal sustainability, competitiveness and economic security are worth pursuing, but cannot be achieved simultaneously, at least over a five-to-15 year period. Policy must therefore confront trade-offs. For example, relying on Chinese green equipment may help contain the fiscal cost of the transition and be good for competitiveness, but at the cost of undermining economic security. Conversely, European sourcing may head off economic security risks, but is likely to increase the fiscal cost of the transition.
          Moreover, the nature or the acuteness of the trade-offs depend on the instruments chosen to reach net zero. Carbon pricing (through taxation or the auctioning of emission permits) alleviates the budget constraint but raises issues of social acceptability. Regulation does not raise fiscal concerns, but by shifting the decarbonisation cost onto the business sector, it may negatively affect competitiveness. Subsidisation of green investment may be good for economic security and competitiveness, but entails a fiscal cost (which the US Inflation Reduction Act (IRA) suggests could be major). Trade-offs are therefore instrument-specific.
          EU green investment needs, and the public share of them, depend on the industrial policy approach. A strong industrial reshoring strategy would, for instance, lead to higher costs for clean technologies and therefore to higher green-investment needs. On the contrary, a more balanced and innovation-driven industrial policy might foster clean-tech cost reductions and therefore reduce green-investment needs. As industrial competitiveness will be a major driver of the 2024-2029 EU cycle, this trade-off will have to be confronted by policymakers at both EU and national levels.
          In summary, Europe is currently not on track to reach its climate targets. It is at a juncture where political resistance to decarbonisation is mounting and where budgetary means to buy off consent are becoming scarce, at both EU level (because the main source of financing is drying up) and national level (because the fiscal rules leave little room for green investment). Moreover, the EU faces increasingly acute trade-offs between fiscal sustainability, competitiveness and economic security.
          The return of President Trump further exacerbates the problem
          The return of President Trump is set to exacerbate competitiveness and economic security challenges. His expected dismantling of US climate and environmental policies will fuel the narrative of populist nationalist parties in Europe, while his agenda is set to worsen Europe’s decarbonisation, competitiveness and security conundrum. As more public spending is likely to be needed in the defence sector, less public resources might be available for the green transition.
          Confronting this challenge, it must be clear that Europe’s own economic interest is to push ahead with the green transition, for at least three reasons. First, global decarbonisation is vital for the EU in seeking to limit increasingly expensive climate damage in the future. Second, it will help the EU enhance its economic competitiveness and economic security. Third, it represents a clean-tech export opportunity for Europe. The EU must stick with its plan even as difficult trade-offs get tougher, and try to turn this situation into an opportunity to attract those clean investments that might now not materialise in the US, at least over the next four years.
          It is important to stress that Trump’s fossil-fuel agenda is in the selfish interest of the US but it has no content for the EU, which is not endowed with fossil-fuel resources. Trump will aim to make the US not just ‘energy independent’, but ‘energy dominant’. He has pledged to halve natural gas and electricity prices within a year, largely through increased natural gas production. If this happens, it would widen the EU-US energy price gap, further undermining EU industrial competitiveness. As previously illustrated, the only way for Europe to provide a structural solution to this problem is to accelerate green investments. Trump’s return should thus be taken as a substantial boost to the implementation of the EU’s clean investment agenda.

          Six proposals to make the necessary climate investments happen

          To reach the EU’s 2030 climate target, the European Commission should put forward a new transformation programme, with both a private and a public strand. For the private strand, policy should aim at ensuring the credibility of the climate-policy strategy, and at creating the framework conditions for a full mobilisation of savings. For the public strand, the aim should to maximise the firepower of limited fiscal resources. 
          The business strand: ensure credibility and the full mobilisation of savings    
          Proposal 1: Ensure the credibility of the EU climate-policy framework and overall policy consistency
          Credible carbon pricing signals and credible climate and environmental regulations drive expectations and underpin the green investment decisions of households and firms. Effective implementation of this toolkit can reduce the overall fiscal cost of the green transition. 
          The European Green Deal must thus be implemented fully, avoiding the temptation to water down its provisions because of competitiveness concerns. Reopening and weakening laws agreed after years of negotiations would do nothing to support the competitiveness of European industry and would only risk postponing the green investment decisions of families and businesses by undermining confidence in the reliability of Europe’s green trajectory.
          An element that should not be neglected is taxation. Current European taxation systems still provide generous fossil-fuel subsidies and it is urgent to rethink them. After previous failed attempts, the now more than two-decades old EU Energy Taxation Directive (Council Directive 2003/96/EC) must be revised to align European taxation systems with EU climate policy, and to incentivise clean-tech uptake.
          Proposal 2: Unleash green private investments through a capital markets union that works, an effective sustainable finance framework and a stronger European Investment Bank
          As the private sector will have to account for most green investment, the capability to adequately leverage private investments will ultimately make or break the European Green Deal. The EU can take two important actions on this: i) deliver an effective capital markets union (CMU); ii) deliver an effective sustainable finance framework and iii) increase the firepower of the European Investment Bank (EIB).
          A CMU that works
          The cost of accessing finance is an important factor in determining whether households and firms can undertake capital-intensive green investments. The EU financial system is highly bank-dominated and fragmented along national lines, making it ill-suited for enabling the massive investments needed for the green transition through the provision of private capital. As a consequence, as noted by Letta (2024), the EU’s share of global capital-market activities – including equity issuance, total market capitalisation and corporate bond issuance – does not align proportionately with its GDP. Economic analysis suggests that this situation makes the EU more prone to crises and more likely to grow at a slower rate (Sapir et al, 2018).
          Twin projects have been undertaken to move from fragmented national financial systems to a single European financial system that can finance projects at a European scale: the banking union (since 2012) and the capital markets union (since 2014). Although integrating and deepening capital markets has been a long-standing EU goal, actual progress on the CMU has been very limited. Giving substance to this project is now urgent to spur the private investments needed for the green transition. As suggested by Merler and Véron (2024), the European Commission should advance the CMU primarily by focusing on the integration of capital-markets supervision at EU level, as that is the area with the most immediate potential for progress.
          Reform should also streamline the jumble of market infrastructures, asset management and auditing frameworks that currently prevent the efficient pan-European allocation of European savings to European projects, including those needed for the green transition. After years of procrastination, it is time to move and create a direct connection between the funding of the green transition and the development of the CMU.
          Deliver an effective sustainable finance framework
          The EU has been a first mover in sustainable finance. However, as pointed out by Merler (2024), the EU’s legal framework on sustainable finance suffers from three flaws:
          Its centrepiece – the Taxonomy Regulation (Regulation (EU) 2020/852), which defines what counts as sustainable – is hampered by conceptual and usability shortcomings and as a result has not gained traction as the reference framework among corporates and investors for issuance or investment.
          The second pillar – the EU Sustainable Finance Disclosure Regulation (Regulation (EU) 2019/2088) – suffers from a structural weakness: its key concept of ‘sustainable investment’ is not clearly defined.
          Lastly, the EU lacks a coherent framework for transition finance, which is currently not properly defined in EU legislation.
          These flaws risk limiting the effectiveness of EU regulation in leveraging financial markets to meet climate goals. As suggested by Merler and Véron (2024), the EU should take three actions to address this problem: i) better define ‘sustainable investment’ in the disclosure regulation, and ‘transition finance’ in the EU legal framework; ii) develop a standard for sustainability-linked bonds and other types of transition-finance instruments; iii) review how environmental, social and governance (ESG) ratings are regulated to make them more impactful.
          Increase the firepower of the EIB
          The EIB has played an important role in fostering clean investments under the auspices of the so-called Juncker Plan (now renamed InvestEU), a 2015 EU initiative to boost investment. EIB guarantees should amount to €33.7 billion to support about €370 billion in private investments by 2027. But more can and should be done to increase the role of the EIB in fostering investment across the EU, and also to increase its risk profile.
          An important but still modest step has been taken by the EIB Board of Governors, which in 2024 proposed to change the statutory limit on its gearing ratio (ie how much it can lend in relation to its own resources), raising it from 250 percent to 290 percent. With a total balance sheet close to €600 billion, the EIB has played an increasingly significant role in the financing of the green transition, in accordance with its 2019 decision to become ‘the EU’s climate bank’, and to devote more than 50 percent of its investments to projects supporting climate action and environmental sustainability.
          The EIB Board of Governors in June 2024 confirmed the financing of the green transition as the bank’s first priority, envisaging an increase in its lending to interconnectors and grids, energy efficiency, energy storage and renewables, and clean-tech manufacturing projects (EIB, 2024a). Financing activity of up to €95 billion is foreseen for 2024-2027, with well above half of investments going to the green transition. This compares to financing activity of €84 billion in 2023, of which more than half is already focused on the green transition (EIB, 2024b).
          This is a good step but a modest one, given the scale of investment the EU needs in the coming years. The EIB should be more ambitious on the level of its financial activity. The EU should continue to provide the EIB with sufficient mandates and guarantees from the MFF, as these are essential to maintain the EIB’s current funding levels and to deploy more high-risk impact finance – similarly to national promotional banks (eg Germany’s KfW, France’s Groupe Caisse des Dépôts, Italy’s Cassa Depositi e Prestiti and Spain’s Instituto de Credito Oficial), which are underwritten by national guarantees.
          An additional step to form up the EIB’s role in fostering private green investment was proposed by Letta (2024): the launch of a European Green Guarantee (EGG). This would entail the European Commission and EIB developing jointly an EU-wide scheme of guarantees to support bank lending to green investment projects and companies, with the EIB evaluating specific proposals from commercial banks and/or national financial institutions, and awarding the guarantee that would enable them to provide the necessary funding to companies. Based on a resource multiplier of 12 (like the original Juncker Plan), €25 billion to €30 billion in guarantees would trigger €300 billion to €350 billion in green investment. Under this scheme, European banks would be able to play a greater role in funding green companies, as the EGG would neutralise the so-called ‘green transition risk’, which prices the inherent risk of lending to green companies. The EGG would thus allow the EIB to reinforce significantly its catalytic role in private green investment.
          The public strand: maximising the firepower of limited fiscal resources
          Proposal 3: Turn NECPs into national green-investment strategies and attach conditions to the disbursement of EU funds
          The national energy and climate plans (NECPs) of EU countries remain bureaucratic exercises without substantial impact on the formulation and implementation of national energy policies (Pisani-Ferry et al, 2023). NECPs must be turned into real national green-investment strategies, providing a point of reference for investors, stakeholders and citizens in making investment decisions. Governments should be obliged to set out in their NECPs a detailed, bottom-up analysis of their green investment needs, and an implementation roadmap with clear milestones or key performance indicators (KPIs).
          The disbursement of EU green funds should be made conditional on the efficient achievement of these KPIs. This would be in line with the approach of linking the future EU budget with national reforms and investments, put forward by Ursula von der Leyen ahead of the European elections. As part of this, EU funds should be better focused on European green public goods with a high level of additionality (eg electricity interconnections) and measures that tackle the distributional impacts of climate policy.
          Much more coordinated development of renewable energy and electricity-grid investment across Europe would yield substantial ‘techno-economic’ benefits, based on the design and operation of several European national electricity systems jointly, rather than individually. These benefits will increase massively with the development of renewables because of the harnessing of regional advantages, reducing the need for expensive back-up capacity and enhancing resilience to shocks (Zachmann et al, 2024).
          Proposal 4: Revise the EU fiscal framework to introduce a ‘fiscally responsible public investment rule’
          The reform of the EU fiscal framework has not left adequate room for green public investment. The framework should be revised by exempting well-specified public investment in decarbonisation, approved by the Council of the EU, from the application of minimum adjustments required under the EDP and the associated safeguards. 
          The problem with public investment in decarbonisation is that many of these investments are unprofitable at the current carbon price, taking into account the prevailing discount rate (for households) or the cost of capital (for businesses and local governments). Belle-Larant et al (2024) estimated that in France, only one-third of green investments in the transport and building sectors are profitable at the current carbon-price level. This implies that they won’t happen without public support. 
          Governments should thus play an important role here. But the new EU fiscal rules prevent countries that are subject to the EDP from sustaining clean investments. The framework should be amended so that economically-sound public investment that is expected to result in measurable reductions in emissions can happen. As a rule, this exemption should be conditional on: (a) the allocation of the future savings from reductions in fossil-fuel consumption to the reduction of public deficits and (b) adequate monitoring of implementation.
          Proposal 5: Put the EU budget at the service of the green transformation
          Increasing the minimum green spending threshold in the EU Multiannual Financial Framework (MFF) from 20 percent in 2014-2020 to 30 percent in 2021-2027 was an important step, consistent with the EU’s tougher climate goals. However, no interim assessment has been performed on compliance with the threshold and effectiveness of the spending. This should be done, taking into account that the European Court of Auditors found that the reported green spending in the MFF from 2014-2020 was not always relevant to climate action and that climate investment reporting was overstated (ECA, 2022).
          In the context of the approaching phase-out of the Recovery and Resilience Facility, maintaining the current green spending threshold in the 2028-2034 MFF should be seen as a bare minimum for the EU. New strategic priorities, including security and defence, should be met in parallel – and not at the expense – of the green transition. The EU budget should also be more focused on European green public goods and measures aimed at leveraging national actions to tackle the distributional impacts of climate policy. As we have noted, the disbursement of the EU green budget should be made conditional on the achievement of KPIs.
          Commission President von der Leyen is right to propose the creation of a new European Competitiveness Fund to invest in clean-tech manufacturing, AI, space and biotech technologies (von der Leyen, 2024). EU countries should not kill this proposal, as was done with the European Sovereignty Fund, and should instead consider different funding options, including new EU joint borrowing as suggested by Draghi (2024). The European Competitiveness Fund should accompany the implementation of a truly European industrial policy, and could become the main EU industrial policy investment vehicle in the context of which other tools, such as the EU Innovation Fund, could be framed while maintaining their operational autonomy. That is, the European Competitiveness Fund should be a one-stop-shop able to ensure the availability and accessibility of EU funds for clean-tech manufacturing.
          Availability and accessibility are essential to maximise the impact of public money. Without such a vehicle at EU level, public incentives to spur private investment in clean tech and other technologies would predominantly come from national state aid, which would create risks of single-market fragmentation. The new Competitiveness Fund should:
          Focus on supporting the development and scaling-up of pan-European public-private eco-systems, for instance topping-up national support for Important Projects of Common European Interest (IPCEIs);
          Support the whole innovation cycle in an integrated manner, from disruptive innovation to deployment at scale;
          Prioritise areas in which market, network and transition failures are most likely and government selection failures least likely, ensuring additionality and leveraging of other (member state) public and private funding (Tagliapietra et al, 2023).
          Proposal 6: Maximise the use of ETS revenues
          As the EU carbon price has increased significantly in recent years, so too have the revenues accruing to governments from auctioning off emission permits – rising from around €5 billion in 2017 to €38.8 billion in 2022. Of the total auction revenues generated in 2022, €30 billion went directly to EU countries, while the rest went into the EU Innovation Fund (€3.2 billion) and the Modernisation Fund (€3.4 billion) (EEA, 2023). However, while between 2013 and 2022 national governments only spent around three quarters of the total revenues they received on climate-related activities, the ETS rules now oblige them to spend all their revenues for green purposes.
          In May 2023, EU countries agreed to introduce a second emissions trading scheme (ETS2). This will put a price on emissions from direct fuel combustion, including gas and oil boilers in private homes, and fuel combustion in road transport. Taking effect in 2027, ETS2 will require upstream fossil-fuel suppliers to surrender carbon certificates equivalent to the emissions generated by consumers of their fuels. The auctioning of ETS2 allowances will also generate substantial revenues of about €50 billion annually at a carbon price of €45/tonne (in 2020 prices) – the level of the cap that will be in place during the first three years of operation of ETS2. A maximum of €65 billion from the 2026-2032 revenues will be allocated to the Social Climate Fund (SCF), which is intended to support vulnerable households, micro-enterprises and transport users who face higher costs.
          To access the SCF, EU countries must develop by June 2025 social climate plans that outline how they will use these funds to support vulnerable communities. In addition, countries must contribute at least another 25 percent of the costs of their social climate plans, increasing SCF resources to at least €87 billion (Cludius et al, 2023). The remaining ETS2 revenues will be managed by national governments; EU rules require these revenues to be used to deploy low-emission solutions in transport and heating, or to mitigate social impacts. 
          Cautiously assuming an ETS carbon price of €75 in 2030, and an ETS2 carbon price of €45, total revenues would amount to €65 billion in that year, of which €50 billion would accrue to EU countries. If carbon prices rise by 2030 to €130 and €100 on the ETS and ETS2 markets respectively, total revenues would be €134 billion in that year, of which around €100 billion would accrue to member countries. Being in the order of €50 billion to €100 billion in 2030, ETS revenues accruing to member states would thus be significant, and should be used to maximum benefit for the transition. The EU should closely monitor member state policies to ensure the money is well spent.

          Conclusion

          Per raggiungere i suoi obiettivi climatici, l'UE avrà bisogno di investimenti annuali aggiuntivi pari a circa il due percento del PIL tra il 2025 e il 2030, paragonabili alla spesa per lo sviluppo rurale dell'UE nel 2022, stimata al 2,2 percento del PIL (Eurostat, 2024). Queste esigenze di investimento sono significative, ma gestibili.
          Trovare le somme è anche urgente e necessario. Con l'European Green Deal, l'UE si è posizionata come leader mondiale nella politica climatica. Data l'economia politica dell'azione globale per il clima e il probabile ritiro degli USA dall'accordo di Parigi, il successo dell'European Green Deal è fondamentale affinché la decarbonizzazione globale abbia una possibilità. Ciò è più importante che mai, poiché gli impatti del cambiamento climatico in tutto il mondo stanno diventando sempre più visibili e costosi.
          Da questa prospettiva globale, va ricordato che il costo dell'azione per il clima è di gran lunga inferiore al costo dell'inazione, soprattutto per l'Europa, che è il continente che si sta riscaldando più rapidamente. Le inondazioni estreme in Slovenia nel 2023, ad esempio, hanno causato danni stimati in circa il 16 percento del PIL nazionale (FMI, 2024). Tali eventi causano gravi impatti diretti su insediamenti, infrastrutture, agricoltura e salute umana. Hanno anche portato a impatti economici più ampi nelle regioni colpite e a importanti sfide fiscali a livello nazionale.
          Come abbiamo dimostrato, la quota pubblica degli investimenti aggiuntivi necessari all'UE per raggiungere il suo obiettivo climatico per il 2030 dovrebbe variare tra lo 0,5% e l'1% del PIL nel 2025-2030. I vincoli fiscali non devono ostacolare la mobilitazione di queste risorse. Il debito pubblico per tali investimenti dovrebbe essere visto come un "debito buono", pienamente giustificato dalle esigenze di finanziamento una tantum di una transizione straordinaria e temporanea che andrà a beneficio massiccio delle generazioni future. Va inoltre sottolineato che la spesa pubblica per la mitigazione del clima oggi ridurrà le esigenze potenzialmente molto più elevate di spesa pubblica per l'adattamento climatico in futuro. Un quadro di investimento verde responsabile lungo le linee da noi suggerite aiuterebbe a convincere i mercati che questo debito verde può e deve essere finanziato.
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          Da un raro atterraggio morbido a un comune mercato rialzista

          Owen Li
          Ci sono stati solo quattro atterraggi morbidi nella storia: nel 1968, nel 1985, nel 1995 e ora, nel 2024. Poiché gli atterraggi morbidi sono così rari, i partecipanti al mercato non hanno molti punti dati per fare previsioni audaci sul futuro. Ma, storicamente, la crescita economica ha accelerato negli anni successivi a un atterraggio morbido. E questo schema è probabile che si ripeta nel 2025.

          Il mercato rialzista continua

          L'esito dell'atterraggio morbido ha spinto le azioni ai massimi storici nel 2024. Nel frattempo, gli spread creditizi sono storicamente stretti e la maggior parte delle misure di volatilità del mercato sono tranquille. Si prevede che i solidi profitti aziendali accelereranno nel corso del 2025, soprattutto negli Stati Uniti. E gli obiettivi politici dell'amministrazione Trump, tra cui deregulation, minori costi energetici e tagli alle tasse, potrebbero dare impulso a un'economia statunitense già in crescita.
          Le previsioni GDPNow della Federal Reserve Bank di Atlanta suggeriscono che l'economia crescerà a un tasso annuo del 2,6% nel quarto trimestre del 2024. La maggior parte delle previsioni prevede che il PIL degli Stati Uniti crescerà del 2%-2,5% nel 2025, ben lontano dal territorio di recessione.
          Il mercato del lavoro rimane resiliente. Gli Stati Uniti hanno aggiunto più di 2,1 milioni di posti di lavoro negli ultimi 12 mesi. Il tasso di disoccupazione è a un minimo storico del 4,1%. Gli stipendi stanno crescendo più velocemente dell'inflazione. E le aziende sono riluttanti a licenziare i lavoratori, un indicatore positivo anticipatore per l'economia.
          I consumatori completamente impiegati probabilmente continueranno a spendere. Il 20% dei percettori di reddito più alti è responsabile del 40% dei consumi, e sono in ottima forma.
          Il consumo di qualcuno è il profitto di qualcun altro. Le aziende SP 500® dovrebbero aumentare i loro guadagni del 9,4% nel 2024. Sorprendentemente, gli analisti prevedono una crescita dei guadagni ancora migliore del 15% nel 2025. Se le aziende SP 500 manterranno i guadagni, i margini di profitto già elevati raggiungeranno i massimi storici.
          Allo stesso tempo, l'inflazione continua a strisciare verso l'obiettivo del 2% della Federal Reserve (Fed). La misura dell'inflazione preferita dalla Fed, il Core Personal Consumption Expenditures (PCE) Price Index, è scesa dello 0,4% negli ultimi 12 mesi, dal 3,2% al 2,8%.

          I mercati rialzisti non svaniscono

          C'è un vecchio adagio di mercato che sostiene che le espansioni economiche non muoiono di vecchiaia. L'implicazione è che è necessario un catalizzatore per porre fine ai bei tempi.
          Tuttavia, le valutazioni elevate raramente sono state un buon indicatore delle performance del mercato azionario a breve termine. Gli investimenti costosi possono, e spesso lo fanno, diventare più costosi nel breve termine. L'incapacità di soddisfare o superare le aspettative di utili alle stelle l'anno prossimo potrebbe interrompere la ripresa del mercato. Anche la ripresa dell'inflazione potrebbe ostacolare l'espansione economica, ma l'aumento dell'inflazione è più probabile che sia un problema del 2026 che del 2025. In definitiva, la direzione dei tassi di interesse reali potrebbe essere l'arbitro finale sulla vita o la morte di questa espansione.
          Tuttavia, con l'avvicinarsi del 2025, è difficile immaginare che uno qualsiasi di questi rischi visibili possa dare il via a una contrazione economica e porre fine alla ripresa del mercato l'anno prossimo.

          Atterraggio sicuro, osservazione della crescita

          Cosa ha sopportato l'economia per ottenere un atterraggio morbido nel 2024? Da marzo 2022 a luglio 2023, la Fed ha aumentato i tassi di interesse 11 volte, il ritmo più aggressivo degli ultimi 40 anni. I responsabili delle politiche della Fed hanno aumentato l'intervallo obiettivo per il tasso sui fondi federali dallo 0% a un picco del 5,25% al ​​5,50%. Questi aumenti dei tassi hanno contribuito a raffreddare l'inflazione da un picco del 9,1% a giugno 2022 al 2,6% a ottobre 2024.
          Nonostante tutti gli aumenti dei tassi, l'economia ha evitato la recessione e il mercato del lavoro ha resistito. Sfidando le probabilità, la Fed ha rallentato l'economia abbastanza da far scendere l'inflazione, ma non così tanto da farla scivolare in recessione.
          La crescita economica ha rallentato da un tasso annuo del 4,9% nel terzo trimestre del 2023 a un tasso annuo del 2,8% nel terzo trimestre del 2024. Il tasso di disoccupazione è salito dal 3,4% nell'aprile 2023 al 4,3% nel luglio 2024, segnalando un mercato del lavoro in flessione. E, con l'intervallo obiettivo per il tasso dei fondi federali notevolmente al di sopra delle attuali misure di inflazione, la Fed ha iniziato il suo ciclo di tagli dei tassi di interesse a settembre, tagliando i tassi di interesse dello 0,75% nelle sue ultime due riunioni. Con tassi al 4,50%-4,75% a novembre, la maggior parte degli osservatori della Fed si aspetta che la banca centrale riduca i tassi di un altro 0,75%-1,00% nel 2025.
          Quindi, cosa succede adesso?
          La storia non si ripete, ma spesso fa rima. Anche il ciclo di restringimento della Fed prima del più recente atterraggio morbido nel 1995 è stato aggressivo.
          Da febbraio 1994 a febbraio 1995, la Fed ha aumentato i tassi di interesse sette volte in 13 mesi. Allora la colpa non era dell'inflazione, ma del surriscaldamento del mercato del lavoro. La Fed ha raddoppiato l'intervallo obiettivo per il tasso sui fondi federali dal 3% al 6% senza causare una recessione. Temendo che le condizioni di politica monetaria fossero diventate troppo rigide, la Fed ha effettuato una serie di aggiustamenti di metà ciclo, tagliando i tassi di interesse tre volte dello 0,75% da luglio 1995 a gennaio 1996. Dopo l'atterraggio morbido del 1995, il PIL degli Stati Uniti è accelerato dal 2,7% nel 1995 al 3,8% nel 1996.
          Gli attuali aggiustamenti di metà ciclo della Fed potrebbero produrre un impulso simile all'economia statunitense nel 2025.

          Imparare dal fantasma degli atterraggi morbidi del passato

          Poiché la Fed ha aumentato in modo aggressivo i tassi fino a luglio 2023 per contrastare l'inflazione, la formazione di capitale è crollata.
          Le offerte pubbliche iniziali (IPO) sono ora ben al di sotto della media degli ultimi 20 anni. Le fusioni e acquisizioni (MA), ostacolate da tassi più elevati e da un ambiente normativo più rigido, sono al di sotto delle medie decennali. Le società di private equity hanno 3,2 trilioni di dollari in asset nei loro portafogli in attesa di un piano di uscita. I valori degli accordi di private equity sono scesi del 60%, il numero di accordi è crollato del 35% e i valori di uscita sono scesi del 66%. Le spese in conto capitale delle aziende sono state limitate da tassi più elevati e rigide normative, soprattutto nei settori manifatturieri.
          I tagli dei tassi della Fed, combinati con costi energetici potenziali più bassi, una regolamentazione più leggera e tasse più basse, potrebbero scatenare un periodo di massiccia formazione di capitale tramite IPO, MA e maggiori spese in conto capitale. L'intelligenza artificiale (IA) ha anche il potenziale per sostenere la crescita economica, aumentare i guadagni di produttività e creare la prossima ondata di nuove aziende innovative.
          L'atterraggio morbido del 1995 ha incluso anche un enorme aumento della potenza di calcolo che si è intersecato con l'adozione globale del World Wide Web da parte sia dei consumatori che delle aziende. Ciò ha favorito un'era di eccezionale crescita economica e il miracolo della produttività di Greenspan.
          In effetti, gli anni successivi al soft landing del 1995 fino allo scoppio della bolla TMT nel marzo 2000 sono stati alcuni degli anni migliori mai registrati per le performance del mercato azionario. L'SP 500 ha registrato un rendimento del 37,2% nell'anno del soft landing del 1995, sulla strada per cinque anni consecutivi di rendimenti annuali superiori al 20%. Il rendimento annuale dell'SP 500 del 28,1% nel soft landing del 2024 potrebbe essere l'inizio di un altro storico periodo rialzista?
          Nessun dolore, nessun guadagno. Quell'eccezionale mercato rialzista post-atterraggio morbido dal 1995 al 1999 è stato caratterizzato da una volatilità molto maggiore di quella a cui sono abituati gli investitori odierni. Alcuni osservatori di mercato attribuiscono alle decisioni di politica monetaria della Fed la responsabilità della crisi valutaria del baht thailandese, del default del debito russo e del fallimento del Long-Term Capital Management (LTCM).
          È probabile che le transizioni simultanee nella leadership del governo, nella politica monetaria e nella spesa fiscale aumentino la volatilità del mercato dei capitali nell'attuale periodo post-soft landing. Una maggiore volatilità del mercato potrebbe essere il prezzo che i partecipanti al mercato pagano per una crescita economica più rapida e una performance potenzialmente più elevata del mercato azionario.

          Prevedere un altro mercato rialzista pluriennale

          L'attuale mercato rialzista ha festeggiato il suo secondo compleanno il 12 ottobre 2024. In media, un mercato rialzista dura poco più di cinque anni. E se l'attuale mercato rialzista finisse ora, sarebbe uno dei più brevi mai registrati. Sulla base dei solidi guadagni degli ultimi due anni, l'ambiente attuale suggerisce che il rally potrebbe continuare nel 2025.
          Cosa significa questo per gli investitori che vogliono posizionare i portafogli per l'anno a venire?
          Nel settore azionario, il ciclo di allentamento della Fed, la forte crescita economica degli Stati Uniti sostenuta dagli obiettivi politici dell'amministrazione Trump e la leadership legata all'intelligenza artificiale indicano opportunità nelle società a piccola capitalizzazione statunitensi, nelle banche regionali e nell'ampia filiera dell'intelligenza artificiale.
          Nel reddito fisso, mentre la politica monetaria è stata il recente motore delle tendenze dei tassi di interesse, le tariffe commerciali previste, la riforma dell'immigrazione e i tagli fiscali significano che la politica fiscale avrà probabilmente un impatto sulla volatilità dei tassi di interesse nel 2025. Ma le politiche pro-business dell'amministrazione Trump potrebbero aumentare le prospettive favorevoli del credito.
          Infine, i cambiamenti strutturali nella leadership, nella politica monetaria e nella spesa fiscale hanno contribuito all'elevata correlazione tra azioni e obbligazioni che ha destabilizzato i portafogli tradizionali, rendendo questo un buon momento per valutare la diversificazione per ripristinare l'equilibrio e contribuire a moderare un potenziale aumento della volatilità.

          Fonte: State Street Corp

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          Dichiarazione sulla politica finanziaria degli enti locali: una risposta iniziale

          IFS

          Economico

          Il governo  ha pubblicato  una dichiarazione politica in cui delinea i suoi piani per il finanziamento degli enti locali in Inghilterra per il prossimo anno e fornisce ulteriori dettagli sui piani di riforma a lungo termine.
          David Phillips, direttore associato dell'IFS e responsabile delle finanze degli enti locali e devoluti, ha affermato:
          "L'annuncio sui finanziamenti del consiglio è una chiara dichiarazione di intenti da parte del nuovo governo.
          Se tutti i consigli inglesi aumentassero la loro imposta comunale del massimo consentito (in media, poco meno del 5%), il loro finanziamento di base complessivo aumenterebbe del 5,6%, o del 3,2% in termini reali dopo aver tenuto conto dell'inflazione prevista per l'intera economia. E se aggiungiamo il nuovo reddito dei produttori di imballaggi, l'aumento sarà più vicino al 5% in termini reali.
          Ma gli aumenti dei finanziamenti saranno molto mirati ai consigli svantaggiati, tipicamente urbani. Le sovvenzioni mirate ai consigli rurali saranno abolite per finanziare in parte una nuova sovvenzione basata sulla deprivazione. Il governo si sforza di sottolineare che i consigli che servono le aree rurali vedranno comunque un incremento del loro finanziamento complessivo, ma questo sarà sostanzialmente inferiore rispetto alle aree più svantaggiate.
          Il governo ha descritto questi cambiamenti come un trampolino di lancio verso riforme più fondamentali dal 2026-27 in poi. Il suo impegno a riformare il sistema di finanziamento del consiglio con valutazioni aggiornate delle esigenze di spesa e della capacità di raccolta di entrate locali è benvenuto, e atteso da tempo. Le attuali allocazioni di finanziamento si basano su una serie di decisioni ad hoc e dati risalenti fino agli anni '90. Il sistema attuale semplicemente non è adatto allo scopo e il governo ha ragione a riformarlo.
          I cambiamenti apportati per l'anno prossimo suggeriscono che questi cambiamenti a lungo termine porranno anche l'accento sulla ridistribuzione dei finanziamenti alle aree più povere, per compensare i tagli di cui hanno subito il peso durante gli anni 2010. Se ciò sia giusto sarà nell'occhio di chi guarda. Tuttavia, lo status quo non potrebbe continuare indefinitamente e una prossima consultazione consentirà ai consigli e ad altri stakeholder in tutta l'Inghilterra di dire la loro su cosa dovrebbe dare priorità a un sistema di finanziamento riformato".
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